Si dice ancora oggi per una coppia che si sposa “vegnen kuror”; tradotto in italiano significa “mettere la corona”. Infatti nel matrimonio col il rito greco bizantino il celebrante scambia per tre volte le corone in testa agli sposi a voler significare l’indissolubilità dell’unione.

Durante il fidanzamento i due giovani non potevano essere lasciati soli: c’era sempre qualcuno che faceva compagnia e vigilava in modo che non potessero toccarsi fisicamente.

I matrimoni tra ceti sociali diversi non erano ben visti; in tal caso i fidanzati risolvevano il problema con la fuitina (jkenj). La fuga era scelta quando i due giovani non potevano permettersi la festa. Qualche volta si verificava anche il rapimento da parte dello sposo ma se alla fine non si perveniva ad un accordo l’onta si lavava col sangue e si arrivava a commettere atti di violenza.

Nelle famiglie numerosi i figli si dovevano sposare per ordine di anzianità. Nel caso di anticipo la sorella più piccola doveva chiedere il consenso a quella più grande. Questa era anche una delle cause delle fuitine.

Il primo figlio maschio, anche se più grande, doveva sposarsi dopo il matrimonio della prima sorella.

Non mancavano i matrimoni combinati dai parenti che agivano solo per questione di interesse. Rarissimi erano i casi di separazione perché era una situazione infamante non accettata dalla comunità. Un marito, una volta scelto, si manteneva per sempre a qualsiasi condizione, anche se si dimostrava violento o alcolizzato.

Lo sposo doveva assicurare alla futura moglie la casa in cu avrebbero abitato, anche in affitto, mentre la sposa pensava al corredo e all’arredo. I mobili erano ridotti al minimio: la madia, un tavolo, un letto, un comò o la cassapanca, l’armadio era già un lusso che pochi si potevano permettere.

Otto giorni prima del matrimonio lo sposa esponeva al pubblico le dote che riceveva dalla sua famiglia e che doveva essere sufficiente per tutta la vita. Prima di portare la biancheria a casa dello sposo, si stilava un documento che conteneva l’elenco e il valore degli oggetti d’arredo, che veniva controfirmato dallo sposo e/o dai suoi genitori.

Il numero degli oggetti del corredo: lenzuola, coperte, asciugamani, camicie, ecc., dipendeva dalla condizioni familiari. Se la famiglia era ricca il corredo doveva essere di 24 pezzi, se era benestante di 12 pezzi, se era povera di 6 pezzi, in caso di fuga 4 pezzi. Le donne portavano in dote anche gli oggetti per cucina: pentole, caldaie, tegami e la conca per il trasporto dell’acqua dalla fontana o dal pozzo comunale. Esisteva anche il corredo per gli uomini, oltre al vestiario c’era anche la zappa per i contadini.

Dopo l’esposizione, tutta la biancheria veniva trasportata a casa dello sposo dalle donne parenti della sposa le quali facevano una vera e propria sfilata con le ceste intrecciate in testa e compivano gli atti con orgoglio e solennità. Il tutto si concludeva con la preparazione del letto matrimoniale ‘ngihin shtrati nusia e a veshen’ ed era aperto al pubblico.

L’abito della sposa lo regalava la mamma dello sposo che provvedeva anche al pranzo nuziale. Il giorno del matrimonio i parenti stretti degli sposi facevano il giro per le case dei rispettivi invitati per accompagnarli a casa dei rispettivi sposi (i vejen a mire).

Lo sposo. Si recava a piedi con il seguito dei propri parenti in fila, a casa della sposa e poi, tutti insieme si recavano in chiesa per la cerimonia facendo ‘la sfilata’ in coppia. Giorni prima già si discuteva nelle famiglie invitate su come organizzare le coppie, rigorosamente maschio e femmina sottobraccio. All’andata si disponevano in corteo prima i parenti della sposa e, all’uscita dalla chiesa i primi posti nel corteo erano per i familiari dello sposo.

La madre della sposa non si recava in chiesa per assistere alla cerimonia; al ritorno dalla chiesa gli sposi si recavano a casa dello sposo dove venivano ricevuti dalla madre dello sposo che li accoglieva entrambi, davanti alla porta di casa, con un laccio d’oro che poi donava alla sposa. Seguiva il lancio dei confetti e biscotti dal balcone o dalla finestra. Le famiglie più benestanti lanciavano anche monetine al pubblico sottostane, formato in genere da bambini festosi che gareggiavano per prendere più monetine. In alcuni casi gli sposi andavano anche alla loro nuova casa per fare il giro del letto e fare qualche foto nella camera con il letto addobbato.

Durante il corteo si lanciavano confetti alla gente ferma nelle strade per vedere la sfilata e ai tanti ragazzi che seguivano passo per passo aspettando il lancio dei confetti, che era continuo da parte di tutti gli invitati, i quali, prima di sfilare, si assicuravano di avere le tasche piene.

La casa era già piena di viveri regalati dai genitori come buon auspicio. Durante il corteo nuziale si sbarrava simbolicamente la strada con una fune e un tavolo con una bottiglia di liquore e dolci, da parte di amici o conoscenti e, per passare, gli sposi dovevano prima bere e poi dare un regalo in denaro agli occupanti.

Il pranzo era organizzato in case private. Per fare più spazio si smontavano i mobili. La festa vera e propria si svolgeva a tavola e si concludeva a tarda notte con musica e danze. Durante il pranzo, come intrattenimento, gli stesi invitati prendevano la parola per fare brindisi augurali, recitare poesie, cantare qualche canzone. Ad ogni portata si gridava ‘viva gli sposi’ ma poi seguiva il silenzio per godere meglio il piatto pieno. Si sentiva solo il rumore delle posate sui piati.

Quando gli sposi aprivano le danze tutti partecipavano avvolgendoli con ‘i ziarell’, nastri colorati di carta, fino sommergerli. Qualche buontempone nascondeva tra i ‘ziarell’ anche qualche corda che impediva agli sposi di distrarsi. Dopo 8 giorni di isolamento gli sposi, la domenica mattina andavano in chiesa e la sposa indossava il 2 abito di nozze.

Nota: Questo racconto è stato preso dalla opera con titolo ‘Riscopriamo le nostre radici Arbwreshe” (pagine. 20, 21, 22, 23) di Michele Boccamazzo.