Di Flutura Açka

Ci sono persone molto legate alla loro terra, che ne conoscono i venti delle stagioni, i suoni e i colori dei giorni e delle notti, i nomi delle piante e degli alberi, della città o del villaggio dove sono nate e cresciute. Conoscono il loro paese meglio della mappa del proprio corpo e non se ne allontanano. Come se avessero un giuramento silenzioso di non cercare una geografia più grande di quella che già possiedono. Come se avessero paura di perdersi se partissero, non emigrano mai.

Ci sono altri che viaggiano attraverso la loro patria per conoscerla meglio: ne adorano le bellezze, ma si indignano davanti alle ingiustizie che incontrano qua e là; talvolta si lamentano della loro cattiva sorte che non li aiuta, ma non abbandonano mai la patria, resistendo alla febbre dell’abbandono. Come se avessero raggiunto nel silenzio la consapevolezza di quel vecchio detto secondo cui “la pietra pesante sta nel suo posto”.

Vi sono poi quelli che migrano, che cercano, che mettono se stessi alla prova in terre straniere, restano un certo tempo lontano dal loro paese, raccolgono un po’ di denaro, finché arriva un giorno in cui, anche se si offrisse loro il miglior banchetto del mondo, tornano ad amare la patria ancora di più. Come se non fossero mai stati emigranti, ma commensali eterni di nostalgie.

Ma ci sono altri ancora che, sospinti dalla corrente del destino, dalle condizioni di vita, dal bisogno di più spazio o dalla curiosità verso altri mondi, si muovono e portano la patria con sé ovunque vadano. Alcuni mettono radici altrove e la dimenticano del tutto, diventando una cosa sola con il mondo che li ha accolti, cambiando abitudini e persino identità. Altri si adattano, si migliorano, ma non abbandonano mai i loro segni albanesi.

Alcuni portano persino un pugno di terra con sé. Altri conservano i calzini che la madre aveva tricotato nell’infanzia. Altri ancora tengono essiccate, negli erbari, le piante del loro cortile. E altri custodiscono fotografie come ferite segrete, solo per sé.

Ognuno, secondo il proprio modo di ricordare o di non dimenticare, lascia la sua traccia.

Senza dubbio, queste sono tra le forme più singolari dell’umanità, che lo sradicamento dalla patria impone agli emigranti albanesi, i quali, dall’estate del 1990, hanno formato una intera comunità, parte dell’Albania dispersa nel mondo, con la più grande concentrazione in Europa e con insediamenti significativi nei paesi vicini: Italia, Grecia, ma anche più lontano in Svizzera, Germania, Francia, ecc.

Tutti insieme hanno disegnato una mappa più ampia dell’Albania, spirituale questa, e anche oltre lo spirituale, che sebbene non coincida sempre con il territorio della loro patria, ha donato loro dal destino una seconda identità che porteranno sempre con sé: l’albanese rimasto in patria che emigra e l’emigrante che non dimentica mai il suo paese, fusi nella stessa persona.

Tutto questo ti viene in mente leggendo questo splendido libro di Alban Daci. Ciò che ogni emigrante albanese avrebbe sentito, raccontato e documentato, lo spiega con una cura umana e professionale, autentica e toccante, questo libro che ho letto d’un fiato e poi riletto con grande attenzione.

Non solo per il fatto che io stessa condivido le sue sensazioni da emigrante, ma anche come lettrice, per le emozioni familiari che trasmette, che in alcuni episodi del libro e nelle narrazioni epistolari dell’autore diventano vera letteratura.

Non solo come scrittrice, che vi ritrovo la cura per la lingua e un’ostinata ricerca della verità in una luce umile e sincera, insieme alla veste di tutte le sfumature di destino comune a migliaia di giovani albanesi, ai quali la patria è andata stretta negli ultimi trent’anni.

Non solo come politica, per il senso di responsabilità politica, istituzionale e pubblica nel sostenere i diritti degli emigranti e per il rammarico delle fatali lentezze nell’assumere la responsabilità statale e nazionale verso la diaspora albanese.

Alban Daci si occupa con dedizione preziosa e professionalità di tutto ciò che riguarda la diaspora albanese, con l’ambizione quasi di un libro totale sulla diaspora. Si nota chiaramente nel libro non solo la profonda conoscenza dell’argomento, ma anche la cura di redigere una cronaca degli eventi più importanti legati alle sorti della diaspora e al suo rapporto con lo sviluppo della nostra democrazia, corta nel tempo storico e lunga nel tempo problematico.

“Perché ce ne andiamo?”, chiede di tanto in tanto l’autore. Abbiamo noi che partiamo la curiosità del mondo che, come dice Roberto Bolaño, cambia “ogni cento piedi”? La patria ci sembra stretta e sentiamo il bisogno di una geografia più vasta per la nostra vita? Imitiamo l’amico, il vicino, i compagni che hanno migrato prima di noi? Ci rattristiamo per le condizioni della nostra vita, ci ribelliamo contro le impossibilità della patria, cerchiamo una vita migliore, più dignità, più opportunità, più senso per la nostra esistenza? Abbiamo fatto bene o male ad andar via? Non tutti, ma noi che siamo partiti!

Come persona che ha trascorso quasi metà della propria vita oscillando tra il mondo e la patria, dividendo l’esistenza “sia qui che lì”, anche senza essermi mai realmente allontanata, conosco bene il significato della parola “là” e il peso di ciò che può chiamarsi “partenza”.

Anche l’autore è un emigrante. Le ragioni della sua emigrazione le spiega nell’opera, tra una moltitudine di descrizioni, analisi e riflessioni. Ecco perché trovo questo libro speciale: non solo per il tema ampiamente trattato, non solo per l’importanza nel momento storico in cui viene pubblicato, ma anche per l’intensità con cui ha seguito per anni le questioni più profonde della diaspora albanese, per la varietà umana degli esempi, per le osservazioni professionali dei casi che porta all’attenzione del lettore e, oltre il lettore, delle istituzioni e di ogni albanese preoccupato per il destino del proprio paese.

Grazie alla natura scrupolosa dell’autore, dal 2008 in poi abbiamo una cronaca completa di tutti gli sviluppi riguardanti gli emigranti albanesi, con fedeltà agli eventi e una costante perseveranza nel difendere i loro diritti calpestati.

L’autore affronta nel suo libro questioni importanti relative alla diaspora albanese, che le istituzioni albanesi, in particolare la politica, avrebbero dovuto affrontare e che devono avere costantemente nella loro attenzione.

Alban Daci spiega il sentimento dell’essere emigrante, entra nel cuore del senso del ritorno in patria, del sentirsi straniero nel proprio paese, dell’oppressione che dà la lontananza e dello shock provocato dall’oblio dei “tuoi”.

Si sofferma in particolare sul ruolo degli emigranti nell’integrazione dell’Albania in Europa, come nel capitolo “L’emigrazione albanese e l’integrazione” (20 febbraio 2008), nonché nel ruolo emancipatore che la diaspora albanese ha avuto nella nostra società: il contributo all’economia nazionale, le questioni dell’integrazione sociale, affrontate nei capitoli “L’emigrazione albanese e l’integrazione sociale” (20 febbraio 2008) o “La casa o le ‘case’ dell’emigrante”.

Uno dei temi centrali del libro è il diritto di voto degli emigranti, discussione ripresa in vari capitoli, a partire dal primo articolo dell’autore nel febbraio 2008 fino ai giorni immediatamente precedenti le elezioni dell’11 maggio 2025.

Parlando al momento giusto e nel luogo giusto, Alban Daci dedica al diritto di voto della diaspora una sorta di scopo di vita: “Diaspora: dobbiamo votare anche noi” (11 febbraio 2008); “Il vertice della diaspora e il voto degli emigranti” (5 febbraio 2019); “Il voto degli emigranti come rivoluzione nel riordino statale, costituzionale e politico” (6 agosto 2022); “Non bisogna escludere gli albanesi che vivono all’estero” o la sua sarcastica analisi del “festival delle offerte” sorto subito dopo l’inclusione del voto della diaspora nel Codice Elettorale, il 27 luglio 2024, per le elezioni dell’11 maggio 2025, descritto nel capitolo “I deputati turisti e il voto degli emigranti”.

Leggendo il libro, spesso ti fermi sul dolore espresso dall’autore, a volte velato dalla giustificazione del destino, altre volte dalla noncuranza verso sentimenti patriottici sublimi. Egli affronta le questioni più profonde e le verità spogliate dai sogni legati all’emigrazione e talvolta chiama apertamente a non abbandonare il paese e a sistemare insieme ciò che deve essere sistemato in Albania, come nel capitolo “Non andatevene!” (10 settembre 2008).

Senza dubbio, tra i capitoli più belli vi sono le descrizioni da Genova, dove vive l’autore. Egli vi si sofferma a lungo, dedicando vari capitoli che spiccano per una sensibilità più intensa, legata a persone reali, amici e conoscenti, descrivendo una giornata dell’emigrante albanese a Genova, i luoghi dove lavorano, i loro punti d’incontro in città, le loro famiglie e le condizioni in cui vivono, come nei capitoli “La comunità albanese di Genova” (settembre 2008); “La grande, silenziosa partenza” (9 novembre 2010); fino alle riflessioni personali dell’autore che si leggono con piacere nelle note “Una notte d’autunno in emigrazione” (15 novembre 2008).

Ma Alban Daci non si occupa solo della nuova diaspora albanese. Riserva spazio anche agli albanesi della vecchia diaspora in Italia e ai legami tra loro, riportando impressioni dalle sue visite personali tra gli arbëreshë e uno sguardo storico alla creazione e conservazione dell’identità albanese fino ai giorni nostri, nel capitolo “Diaspora, un valore dimenticato” (agosto 2011).

Talvolta, con una finezza evidente, l’autore porta anche il senso di colpa della Patria, che sembra aver dimenticato i suoi figli lontani, come narrato in “Abbandonati o dimenticati” (25 febbraio 2010) o in “Diaspora, valore lasciato nell’oblio” (agosto 2011). Egli osa persino creare un costrutto espressivo interessante, “sovranità patriottica”, chiarissimo nel descrivere l’essenza del suo appello alla memoria collettiva affinché torni ai valori e protegga i cittadini albanesi dal cadere nella disperazione provocata dal mantra ingiusto “questo paese non funziona”, spiegato tra le righe in “La partenza degli albanesi e la sovranità patriottica” (17 giugno 2024).

Tra la moltitudine di idee che questo importante libro propone – ed è senza dubbio un contributo essenziale per comprendere molti eventi e fenomeni sociali, politici e culturali degli ultimi trent’anni di democrazia albanese – trovo di grande valore l’idea della creazione di un Museo dell’Emigrazione, come quello che esiste in molti paesi del mondo, affinché anche l’Albania lasci la sua traccia nell’onorare i suoi cittadini con l’istituzione della “Casa degli emigranti”.

Così, leggendo con molta attenzione il libro “Anch’io emigrante, come voi” di Alban Daci, la convinzione che avevo maturato conoscendo l’autore, tra le migliaia di giovani amici che la politica mi ha dato, che lui fosse uno di quei ragazzi di cui l’Albania ha oggi più bisogno che mai, affinché la custodiscano e migliorino la politica, la ritrovo pienamente concretizzata in questo bel libro.

Flutura Açka
Tirana, 28 aprile 2025